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Note in margine a "La Repubblica delle Marchette" - di Tommy Cappellini
30/04/2005

"Bisogna inoltre considerare che la metà, o pressappoco, dell’élite che si interesserà al libro è composta da persone la cui occupazione è il mantenimento del sistema... [...] e l’altra metà da persone che si ostineranno a fare tutto l’opposto. Dovendo perciò tenere conto di lettori attentissimi e diversamente influenti, non posso ovviamente parlare in tutta libertà."

Nulla di più lontano da "La repubblica delle marchette" delle parole di Guy Debord. I lettori cui questo libro si rivolge, la maggior parte di loro, non sono più "attentissimi e diversamente influenti", ma parcellizzati e impegnati a difendere sé stessi, la propria famiglia, e di tanto in tanto il proprio gruppo di appartenenza. Useranno questo libro come uno specchio.
Tali lettori, eccetto qualcuno dal temperamento violento che scaglierà il volume nel cestino, faranno un sorrisetto compiaciuto, ritrovadosi in parecchie pagine, guardando stampato il proprio volto, e poi, lungi dall’usare il testo come breviario per una scalata alle cime del potere, torneranno ad asservirsi alle proprie (piccole) esigenze: cambiar auto, la seconda casa, l’amante, ricevere omaggi, qualche soldo in più di stipendio, qualche extra lavorativo.
Lungi dall’usare il testo per una verifica della propria moralità, concorderanno che non si poteva fare altrimenti, quando quell’inserzionista chiese quella "prestazione"... quando quel direttore ne chiese un’altra...
Questi lettori, ma diciamolo subito: questi giornalisti e redattori, persa l’innocenza, hanno dismesso pure la passione che li muoveva, minima o grande che fosse, a favore di una sopravvivenza banale e di un divertimento squallido.
È difficile che uno di essi risponda di qualcosa che, stando al patto oggi in disuso tra giornalista e lettore, ma soprattuto tra il giornalista e sé stesso, avrebbe dovuto scrivere o evitare di scrivere.
In una frase, il riassunto del libro, oltre che dei nostri tempi, è questo: nessuno si sente direttamente colpevole.
Aleggiano per tutto il libro, nelle parole degli intervistati, alibi di ogni tipo. La morale retrattile di alcuni ha sfiorato il virtuosismo; le donne ne escono male, prontissime al compromesso per una vacanza ai tropici: miserabili soddisfazioni dell’emancipazione; interi gruppi editoriali, fin dagli anni Ottanta, hanno piegato i contenuti agli inserzionisti, raccontando ai lettori frottole su frottole; eppure tutto questo, che dovrebbe far stomacare, viene accettato tranquillamente: e al direttore dell’ordine dei Giornalisti della Lombardia non rimane che affermare: "Io ai giovani dico: voi lavorerete in giornali che saranno pubblicitari con qualche sprazzo di informazione autentica. Ormai è passata per sempre una certa filosofia." "Passata per sempre..."
Aria di sconfitta tira tra queste pagine. Più che a un inchiesta, a un esame approfondito per meglio organizzare una cura, il libro somiglia a un’autopsia del corpo morto, ma ancora bulimico e triste, del giornalismo italiano. Un corpo morto di cui il marketing becca i pezzetti di carne che gli servono per sostentarsi: la metafore dell’avvoltoio è ormai "passata", sdoganata pur essa. Si deve pur vivere (e far il massimo profitto).
Le marchette accadono per vendere cose che nessuno vuole realmente. "L’individuo ha bisogno di beni di consumo nel momento in cui è solo e non ha altro. Nella dimensione metropolitana, per esempio" è un’altra constatazione del libro, il quale, pagina dopo pagina, instilla nel lettore qualche dubbio riguardo la democrazia: le masse sono così facilmente circuibili? La risposta è uguale a un anello: le masse, ormai, sono finite in redazione – redazione che per il marketing è diventata un target.
Le redazioni sono ormai tutte quante embedded all’esercito della pubblicità, pubblicità che è l’anima del commercio, il quale commercio – ormai staccato dai veri bisogni umani, lo ripetiamo – è embedded anch’esso, come al solito, all’ingordigia particolare dei nostri tempi.
Si poteva sperare in una neutralità maggiore dei giornalisti? Si poteva sperare amputassero i propri vizi o la propria vanità per una maggior libertà? Tardi per rispondere. "Ormai è passata per sempre una certa filosofia." Depotenziate le parole stesse, usate come strumenti-grancassa per raggiungere quella flebile emozione che permette l’innesto di una vendita (di un rossetto, di un voto elettorale, di una vacanza, di un libro), le redazioni nella loro totalità, non importa lo schieramento politico-commerciale, hanno raggiunto un livello raffinato, impudico, falsamente provocatorio di pubblicità occulta. E lo hanno raggiunto comodamente, con la facile gioia dell’esagerazione.
Le parole non possono più esprimersi libere. Si sospetta di esse, perché si è cominciato a sospettare, a ragione, della pubblicità, e poi dei giornalisti. Si è persa per sempre quest’altra filosofia: "l’articolo è giusto quando il giornalista è giusto; innanzitutto con sé stesso, con la propria anima, con la propria formazione (se l’ha ricevuta), cose a cui deve tenere molto più che al posto fisso."
Oggi, invece, bisogna giustificare artificiosamente anche l’onestà. Una recensione che so onesta a questo libro, qualche settimana fa, non poteva fare a meno di concludersi dichiarando: "Naturalmente anche questa è un marchetta".
Si è giunti a difendere la propria sincerità dichiarando un crimine che non si è mai commesso.
Come diceva Tolstoj, provocatorio – e andrebbe bene anche per l’Italia: "L’unico posto per un uomo onesto in Russia è la prigione."