Gli scrittori che se la fanno sotto, si mettono tutti insieme e saltano dentro una scatola fabbricata, sigillata e etichettata dai critici. Mal comune, mezzo gaudio. Se anche il pubblico non se li fila perché sono noiosi come tafani (e altrettanto molesti nelle loro manie di protagonismo), se la caveranno assumendo il broncio degli incompresi.
Quelli che hanno coraggio invece corrono da soli e come va va. E quando va bene, sono i più odiati dai primi. Questo spiega perché a Federico Bàccomo, alias Duchesne (il bizzarro e casuale pseudonimo che ha usato nel primo romanzo, Studio illegale, Marsilio, 2008), difficilmente verrà perdonato un esordio molto sopra le righe, con Studio illegale destinato a diventare anche un film, protagonista Fabio Volo. Essendo brillante nella scrittura, avendo qualcosa da dire sullo squallore dei carrieristi, e rischiando in proprio, il giovane autore è già stato amabilmente impallinato dai critici a proposito del secondo romanzo, La gente che sta bene (Marsilio, pp. 270, euro 17,50). Ora, non pensate che “impallinato” equivalga a “stroncato”. Presso di noi, per mettere all’angolo un autore si usa il silenzio. Il concetto è: Bàccomo ha venduto 30mila copie? E allora noi, per dispetto, non ne parliamo più, facciamo come se non esistesse. L’autore, appena trentaduenne, era una promessa in uno studio di avvocati d’affari tra i più prestigiosi d’Italia, a Milano.
Per gioco, ma neanche tanto, ha cominciato a tenere un blog, dove raccontava con sarcasmo le le nevrosi e le miserie del suo ambiente. Parecchi colleghi hanno cominciato a leggerlo ogni giorno, finché si è fatto avanti un editore con la proposta di trasformare il blog in un romanzo. Detto e fatto, grazie al passaparola, le vendite hanno premiato l’intuito.
Dopo il successo del primo libro, Francesco Bàccomo si è dimesso non solo dallo studio legale, ma dall’Ordine degli Avvocati, e ha continuato a scrivere. Risultato: La gente che sta bene è un bel libro, leggibile, scritto con grande accuratezza stilistica, pieno di humour e tutt’altro che banale. E’ una satira della fetta di società privilegiata e opulenta, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Sobreroni (ebbene sì, un altro avvocato), chiusa nella morsa del proprio egoismo e compiaciuta di essere diventata cinica. Sobreroni ha tutto, è giovane, guadagna bene, è rampante e vive con una splendida moglie e un bellissimo bambino, e come ci aspettiamo si fa anche l’amante, ma va a sbattere la faccia contro una dura legge della realtà. Per dircelo, Bàccomo costruisce il personaggio riga per riga, battuta dopo battuta. Per esempio, è bravo nei dialoghi, cosa che non riesce alla maggioranza dei cervelloni con il certificato di Letterarietà stampigliato sulla fronte corrugata. Fa sorridere, e anche ridere, e soprattutto non fa sbadigliare. Non pontifica, descrive. Non sentenzia, racconta. I suoi personaggi, grandi e piccoli, li fa parlare e agire, senza fronzoli. E’ il lettore che si costruisce un giudizio. In epigrafe, alcuni versi di Bill Hicks, comico americano “maledetto”, scomparso nel 1994 a soli 33 anni: “Guardate le mie rughe di preoccupazione,/Guardate il mio grosso conto in banca,/E la mia famiglia./Tutto questo deve essere reale”.
La critica sociale si può fare anche così, con tono leggero ma non per questo superficiale. Per far sorridere o far ridere il lettore ci vogliono talento e umiltà da artigiano. Infatti quelli che fabbricano categorie per se stessi, I Trenta-Quarantenni che si autocertificano come intellettuali, fanno ridere, però in un altro senso.
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