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Malessere democratico
05/07/2008

Ricevo e volentieri pubblico:

IL MALESSERE DEMOCRATICO

Un Paese che gioca al ribasso. Con una élite di dubbia qualità, un sistema meritocratico inesistente, e un’assoluta assenza di mobilità sociale. L’Italia può ancora salvarsi dal suo male intrinseco? Risponde un esperto, Carlo Carboni.

di Luisella Duilia Meozzi

L’Italia ha bisogno di crescere. Ma lo può fare solo coniugando al progresso economico un adeguato sviluppo socio-culturale. La classe dirigente deve pensare un nuovo modello per l’evoluzione del Paese, che metta in rapporto la crescita economica con lo sviluppo e i suoi basilari riferimenti socio-antropo-culturali. «Invece, oggi, è come se la società fosse scomparsa» sintetizza Carlo Carboni nella sua analisi. Una analisi che però si allontana dalla teoria della liquefazione di Zygmunt Bauman o da quella della Decrescita felice dell’economista francese Serge Latouche, nazionalizzata in casa da Maurizio Pallante. Perché «in una società liquida, i soggetti rimasti sarebbero solo istituzionali ed economici, invece sappiamo che l’economia non funziona se non è unita a una buona cultura del lavoro, e le istituzioni democratiche spariscono con la mancanza di senso civico». Inoltre, «il tema da sottolineare è quello della crescita, perché siamo un Paese che si inserisce nel contesto internazionale come uno dei più sviluppati dell’Occidente. Abbiamo la responsabilità di sconfiggere quell’individualismo amorale, così spiccatamente italiano, che ci frena e ci limita». Decidendoci infine a superare «anacronistiche eredità di ispirazione mafiosa, storicamente note ma ignorate, per coltivare moderne linee di meritocrazia e mobilità sociale». Aiutati da un Governo che sappia guidare la società invece di assecondarla illusoriamente.

I suoi libri tratteggiano i drammi di una Italia in decadenza: iperconsumismo, cinismo e classi dirigenti mediocri e autoreferenziali.

«Nonché involute per provincialismo, invecchiamento e maschilismo. La nostra élite riflette specularmente il carattere corporativistico e clientelare della società italiana, costituendosi come un enorme ostacolo per il futuro. Questo emerge chiaramente nella mia precedente pubblicazione, dove metto in risalto le mancanze del ceto politico-amministrativo. Quelle che rendono le nostre classi dirigenti impopolari e rappresentative del sistema dell’antipolitica. Ho scritto questo ultimo libro perché mi sembra che l’attuale malessere italiano, che sta crescendo, abbia un carattere democratico: tutta una società che guarda una serie negativa di fenomeni in forma abbastanza passiva e indifferente, che definisco cinica».

La sobrietà può essere l’inizio di una svolta?

«Esistono classi sociali culturalmente evolute e preparate che guardano a uno stile più sobrio e a una partecipazione attiva. Penso che siano linee utili soprattutto in una società come la nostra, che si è sviluppata in un lasso di tempo abbastanza ristretto. Se penso alla mia regione, le Marche, noto che siamo passati nel giro di soli trentacinque anni dall’economia di autoproduzione a quella fondata sulle grandi catene degli ipermercati. Una trasformazione così veloce modifica gli atteggiamenti in maniera drastica, provocando processi di dispersione e smarrimento anche nella scala dei valori. La sobrietà nei consumi è certo auspicabile, ma non sono d’accordo con questa accentuazione del tema della decrescita. La soluzione sta nello scoprire un modello sostenibile proprio per la crescita del Paese».

La nazione che distrugge l’enorme potenziale che la caratterizza, sfigurando la propria ricchezza in ragione degli interessi personali, può ricostruire il rispetto del bene comune?

«Esiste per fortuna una società che sta crescendo in contrapposizione a quella cinica. Ma se nell’élite non c’è ricambio, e il nucleo cospicuo di persone intoccabili cresce indenne dai sani principi del merito e della competizione, la riscoperta di spirito civico è una pura illusione esattamente come la mobilità sociale. Il malessere democratico di cui dicevo prima, noi sociologi lo evidenziamo con indicatori che registrano l’abbassamento, dagli anni Settanta ad oggi, del numero di persone che votano o si interessano di politica, che si traducono nella crisi dei partiti, degli organismi collettivi, ma anche della famiglia».

Come si può programmare il cambiamento?

«Oggi non può arrivare dai movimenti di massa, come nelle grandi utopie del Novecento. Si può fare solo a mezzo di classe dirigente. Ci vuole un atto di autocoscienza perché i segmenti validi dell’élite si responsabilizzino, riflettendosi nella fetta di società pronta ad accoglierli. Nel breve periodo, l’unica possibilità è una classe dirigente che si genera a mezzo di buona classe dirigente, non solo nelle aule universitarie ma soprattutto nella pratica: prendendo esempio da periodi eccellenti come quello della Ricostruzione, deve essere in grado di portare avanti dei grandi progetti Paese».

In una Italia che definisce ancora schiacciata dalla questione meridionale, ma incalzata dalla globalizzazione, questo è possibile?

«Intanto, la globalizzazione siamo anche noi: tra i primi cento sistemi economici mondiali, quarantasette sono Stati e gli altri delle grandi corporation, metà delle quali europee. Il nostro Nord, esposto ed esponente della globalizzazione e di un mercato e una cultura internazionali soffre di quella che la popolazione vive come una zavorra: la questione meridionale. Il vero punto critico che fa traballare l’insieme del Paese, la chiave di lettura importante della deformazione che tuttora viviamo. Eppure il Sud regolato da vecchi criteri familistici e da un mercato politico clientelare, fa grandi investimenti al Nord per riciclare il denaro sporco delle mafie, e rende interessante per tutti il congelamento della questione meridionale».

Lei parla anche del ruolo progressistico delle quote rosa.

«In una galassia dove il merito è la stella polare, ovviamente. Le quote rosa sono importanti perché possono funzionare da acceleratore dei processi in atto. Non solo le quote ma anche gli esempi, come quello della Marcegaglia. Se osserviamo il processo evolutivo attraverso le classi di età, nella fascia under cinquanta la quota femminile di leader raggiunge il 40%. Scendendo under quaranta si arriva quasi al 50%. Quindi ci sono due opzioni: il trend si interrompe perché le donne si ritirano dopo i cinquant’anni, il cambiamento è stato lento ma sta investendo la società con prepotenza. Io credo nella seconda ipotesi. E sono favorevole alle quote, anch’esse necessarie per imprimere il cambiamento alla classe politica scadente e immeritevole».

 

 

Note biografiche

Carlo Carboni è professore di Sociologia economica presso la facoltà di economia di Ancona. Ha pubblicato diversi libri di analisi socio-politica. Con il volume curato nel 2007, Élite e classi dirigenti in Italia, ha vinto il Premio Capalbio 2007 per l’economia

 

Recensione

SIAMO CAPACI DI CAMBIARE?

A un anno dall’uscita di Élite e classi dirigenti in Italia, Carlo Carboni torna con un volume che rappresenta il seguito ideale dell’analisi. Ma anche la volontà di indicare dei possibili sviluppi per un miglioramento delle classi dirigenti italiane, invertendo la rotta che la politica ha impresso alla società. Mediocre, immobile e individualista. A fare da specchio ai suoi vertici. Partendo dall’assunto che “la nostra non è la migliore delle società”, il modello da riformulare deve tenere conto dei disagi generati da pesi storici, ritardi di sviluppo e ignavia di massa. Una società che rincorre il mito del consumo scambia i desideri per bisogni e coltiva l’individualismo amorale: quello delle promesse politiche infondate, dei “furbetti del quartierino”, delle cementificazioni sconsiderate e del grande degrado. Il carattere cinico e torbido della casta, secondo Carboni si può contrastare solo partendo dal suo interno e dall’alto. Simbolicamente, è una porta stretta che deve fare da filtro per le dirigenze politiche e amministrative, in un processo riformista basato sul ridimensionamento del panpoliticismo per restituire credibilità e autorevolezza alle Istituzioni e alla classe politica. Che non si ottiene con l’illusionismo della Seconda Repubblica, ma istituendo reali criteri di merito che non siano costantemente perforati dalla pletora dei gruppi di interesse in gioco. Carboni accenna un decalogo come spunto speculativo sulle possibili direzioni di marcia da adottare, che aboliscano l’indecisionismo, il deficit etico-legale e la sindrome giustificazionista. Senza scordarsi di affrontare i veri nodi cruciali del sistema Italia, dalla mafia costituzionale alla questione meridionale, proprio perché ignorare i problemi più scabrosi significa “continuare a caricare sul futuro i pesi del passato”. Governabilità e partecipazione sono le basi del cambiamento di un’Italia che non ama farsi governare.

La società cinica, Carlo Carboni, Editori Laterza, 2008, pp. 176, (euro 12,00)